"Banana" di Andrea Jublin


«Secondo me la felicità è come il calcio brasiliano. Nel calcio brasiliano i giocatori per assaporare la felicità si lanciano in attacco, scartano gli avversari con numeri pazzeschi e alla fine fanno gaol. Certo, magari attaccando il brasiliano può fare qualche errore, ma se uno vuole essere felice deve correre dei rischi […].
Di solito però gli altri, le persone normali vogliono che stai in difesa, che fai catenaccio. E’ come se non ci credono che ci sono le cose grandi da andare a prendersi in attacco.
In difesa uno soffre meno, ma non so se può davvero essere felice».

Così Giovanni, un ragazzo di 14 anni chiamato Banana per il suo tiro maldestro e la sua maglietta gialloverde brasiliana, fa la telecronaca della vita attraverso la metafora calcistica.
Giovanni viene sempre messo in porta perché è incapace di fare goal ma lui, “il più brasiliano” di tutti, non ci sta e, ad ogni partita, abbondona il ruolo da portiere che gli è stato imposto dai compagni e si lancia all’attacco con coraggio e fermezza, assaporando la vertigine del rischio. E inevitabilmente la palla esce dal campo, finisce nel giardino della perfida professoressa che la restituisce bucata.
Nella partita di calcio si gioca la vita. Il campo è un piccolo paese laziale, è un’Italia disorientata, inetta e immota come sembrano mostrare le primissime immagini del film, che lasciano intravedere tra monoliti di cemento un cielo indispensabile. Il campo è il presente di oggi, è un mondo dove tutto è stato divorato, fagocitato, consumato. I giocatori sono le persone della vita di Giovanni e di ognuno di noi: adulti rinunciatari, senza sogni e speranze, uomini-massa – direbbe Ortega Y Gasset– o uomini mass-media aggiungiamo noi che assistono “iperpassivi” allo spettacolo della vita.  
Banana, bambino reale e metaforico, piccolo guerriero animato da Eros, decide di giocare seriamente la partita della viva e, in conclusione, ci sorride ferito dal campo.


«La vita è un’avventura, amici sportivi».

Commenti