Abebe Bikila. La libertà di giocare a piedi scalzi.
Nel
gioco l’uomo “trascende” se stesso, supera le determinazioni delle quali è
circondato e nelle quali si è “realizzato”, rende quasi revocabili le
irrevocabili decisioni della sua libertà, evade da se stesso, fuori da ogni
situazione fissata s’immerge nel fondo vitale di possibilità originali – per cominciare
sempre daccapo e liberarsi del peso della sua storia.
Fink E. (1992), Il gioco come simbolo del mondo (1960),
Hopefulmonster, Torino, p.196.
Abebe
Bikila è un maratoneta sconosciuto che sembra provenire dal mistero, è “il
principe dai piedi scalzi”, è “un fiore che crescerà” secondo l’etimologia del
suo nome. Corre e vince la sua prima
maratona olimpica a Roma nel 1960. Si muove con un’andatura regale, sinuosa, “primigenia”
e concentrata nello spazio liminale del
gioco che ha il potere di trasformare la realtà immaginando la sua possibile ulteriorità.
“Trasformare
il reale, come libertà di giocare in modo alternativo le relazioni e i legami,
di trasformare le relazioni di potere, di provare altre posizioni di
reciprocità, di invertire l’ordine quotidiano: il potere trasformativo e
liberatorio del gioco” (Antonacci, 2012, p.51).
Il
percorso della maratona prevede il passaggio accanto all’obelisco di Axum,
simbolo dell’occupazione dell’Italia fascista del paese di Abebe Bikila, l’Etiopia.
Nel buio della notte, «con il battere scalzo dei piedi sul basalto», Bikila
arriva per primo al traguardo della gara, al traguardo della storia, oltre ogni
irrevocabile traguardo.
Se, come sostiene Huizinga, nello sport odierno il fattore ludico è scomparso ed è
diventato “assai più una manifestazione indipendente di istinti agonali che un
fattore di fertile coscienza” (Huizinga, 1946, p. 232), la gara di Abebe Bikila,
con uno scatto felino, riconduce la nostra riflessione al valore del gioco per
la genesi della cultura umana, eleva lo sport a un’attività creatrice di stile
e cultura.
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