La spettacolarizzazione del dolore del bambino nell’epoca della bulimia delle immagini
Di
fronte all’ennesima immagine, comparsa nell’“ipertrofia del visibile” e inghiottita
senza averla scelta per sapore, forma, odore, qualità, ho avvertito la
necessità di fermarmi per interrogarmi e interrogare la pletora di immagini che
straborda sui mezzi visivi, prolifera nelle tecnologie della comunicazione e
condiziona il nostro sguardo.
In
questi giorni sono i bambini, neonati, ritrovati tra le macerie del terremoto.
Nei giorni passati e in continuo doloroso e inarrestabile divenire, bambini
denutriti, bambini soldato, bambini arenati sulla spiaggia, bambini feriti in
un fermo-immagine sanguinante.
Quanti
bambini feriti e fragili, bombardati e affamati, schiavi e moribondi sono stati
esibiti e inghiottiti dal nostro sguardo bulimico che tutto ingerisce e subitaneamente
rigetta senza andare oltre la nostra ormai abitudinaria fruizione
distratta, estetica o superficiale?
I
nostri interrogativi, in quanto ricercatori nelle maglie del reale e
dell’educazione, riguardano il modo in cui il dilagare globale di immagini e di
conseguenza l’immaginario prodotto dai media svolge una funzione educativa. Il
modo in cui esso tacitamente e pervasivamente influenza i processi di
apprendimento, le dinamiche sociali e culturali, la rappresentazione della
realtà stessa, il modo in cui ci informa e forma il nostro sguardo.
Riguardano
il nostro sguardo che forse rischia di assuefarsi e anestetizzarsi dinanzi al proliferare
di immagini tragiche determinando, paradossalmente, un allontanamento e un rifiuto
di qualsiasi contatto con il dolore, la ferita e la morte. La morte
eccessivamente esibita, spettacolarizzata e virtualizzata sembra negare la
possibilità di sostare per interrogarsi sul mistero che essa porta con sé
(Mantegazza), determinando un atteggiamento di indifferenza morale nei
confronti degli eventi tragici rappresentati dai media piuttosto che una presa
di coscienza individuale e collettiva.
Riguardano
il rispetto della persona, della sua dignità nei casi di disagio, sofferenza,
malattia o morte. Riguardano il bambino, sovraesposto senza protezione allo
sguardo rapace o distratto di tutti e nessuno o il bambino usato per disgelare
“la sensibilità atrofizzata della gente” o per solleticare il voyeurismo degli spettatori e
consumatori di immagini.
Riguardano
il rispetto delle parole che dovrebbero, dense, pesanti e spesse, riempire il
vuoto di senso di cui troppo spesso è fatto il nostro linguaggio. Un linguaggio
che sappia dare un nome alle cose, al di là di mere descrizioni oggettive o
inondate dai nostri sentimenti. Un linguaggio che sappia riecheggiare,
ri-guardare e ri-spettare il mondo (Hillman).
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