La tartaruga rossa
Giorni di vacanza. I primi tepori, una ritrovata lentezza, tempi dilatati. Lo spettacolo delle venti e dieci. La sala rossa gremita di
bambini e adulti, di ogni età. Buio in sala. Attimo di attesa in cui si
concentra ciò che sta per accadere, soglia rituale che propizia l’ingresso nell’illusione
di realtà del cinema e orienta lo spettatore verso la possibilità di una
trasformazione.
L’istante di silenzio è interrotto dal rumore di onde furenti che
si infrangono sullo schermo.
«È iniziato». Segnala una voce tremolante e concitata di bimbo.
E poi più nulla. Per oltre un’ora non si ode una sola parola
provenire dallo schermo e dal pubblico. Solo stupore, concentrazione, contemplazione,
emozione. Sono tutti immersi nelle immagini poetanti del regista olandese Michaël
Dudok de Wit, dissolti collettivamente nel mistero della natura, del cosmo e
dell’esistenza.
Gli spettatori, insieme ai protagonisti del film, divengono compartecipi
del processo di scoperta della vita che scorre nel flusso e riflusso delle maree, nella circolarità del tempo dei giorni, delle stagioni, degli
anni, del divenire. Naufraghi su un'isola deserta ci riscopriamo parte del cosmo, alfine riconciliati e ricongiunti amorosamente con esso.
Sui titoli di coda c'è ancora buio e silenzio. Si avverte il bisogno di un altro istante concentrato per congedarsi momentaneamente dall'isola, dalle immagini, dal film.
E poi un vociare entusiasta di bambini esplode nella sala rossa.
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