Virgin Mountain
Fúsi
è un uomo di “quarant’anni suonati” che vive con la madre. Fúsi oscilla goffo
in un corpo massiccio e ingombrante tra il dovere della produttività di un lavoro
come addetto ai bagagli in un aeroporto e il piacere dello svago del gioco.
Fúsi è un adulto che ama e sa ancora giocare e per questo grava su di lui il
sospetto di immaturità, infantilismo e minaccia, tanto più che è appassionato
di wargame: dipinge miniature di carri
armati, sperimenta tattiche e strategie di combattimento sul grande plastico
dove mette in scena la battaglia di El Alamein, spara, si nasconde, simula la
guerra nei campi in aperta campagna.
Fúsi
ha mantenuto viva e intatta la capacità di stare con i bambini, in particolare
con la piccola vicina di casa che si accosta a lui con uno sguardo scevro dal
pregiudizio della diversità e dell’etichetta di adulto perditempo. Ma non è
così per il mondo adulto che sospetta “una probabile forma di insanità, sintomo
di un’attenzione equivoca per i fanciulli” (Antonacci, 2012) e sottopone Fúsi a
un interrogatorio poliziesco.
Fúsi
possiede un nome di una sonorità mite e giocosa che sembra rispecchiare la sua
essenza limpida, altruista, innocente. Ma
solo a prezzo della propria innocenza Fúsi prenderà il volo verso il suo
mistero. L’iscrizione a un corso di ballo country, l’incontro fortuito con una
donna solare e problematica, i soprusi dei colleghi, la musica di Dolly Parton,
i giochi “da femmina” con la bambina del piano di sotto si rivelano piccole
spinte verso l’approdo alla propria ciascunità.
E
forse non importa come e quando si avverte la chiamata ad essere la persona che
si è, unica e irripetibile (Hillman, 1997), ciò che conta è realizzare l’essenza che incarniamo
altrimenti, come ci insegna Jung, la vita è sprecata.
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