Alamar di Pedro González-Rubio
«Sto
aspettando di salire su questa barca, sto andando verso il mare. Sto
camminando, non c’è fretta di arrivare».
Un bambino, Natan, e suo papà, Jorge, salgono su un autobus, giungono sulle rive dell’oceano e aspettano una barca. La barca li traghetterà verso l'atollo corallino di Banco Chinchorro dove vive il nonno Matraca, li immergerà nella natura, nell'acqua immensa e profonda dei mari del Messico.
Inizia
così il racconto di giornate che si ripetono uguali, eppure ognuna diversa, tra
il flusso e il riflusso delle onde, tra gesti quotidiani e rituali di
tradizioni ancestrali, tra immersioni e riaffioramenti per procurarsi il cibo,
tra il silenzio cantato del mare, del cielo e delle loro creature.
Ogni
giorno Natan, Jorge e Matraca partono con la barca dalla palafitta del nonno
per pescare e per poi ritornare a «contemplare la notte».
Sulla
palafitta e sull'atollo c'è il tempo per guardare, ammirare, ascoltare, per stringere
amicizia con l'airone Blanquita, per restituire soggettività e socialità a
esseri non-umani. C'è il tempo per giocare, per fare la lotta con il
papà in un corpo a corpo animale, per sperimentare prove e ostacoli,
per ascoltare la voce lontana e sapiente del nonno, per stabilire e curare, nel
qui ed ora, la relazione paterna consapevoli dell'incertezza del suo esito,
della deriva indefinita che potrà prendere il fiore e il messaggio nella
bottiglia che Natan affida al mare.
L'ultima
scena di Alamar ci riporta nella realtà urbana delle nostre città. E al termine
del film si rende necessario un momento di sosta, che va oltre il tempo indispensabile
di decantazione dei titoli di coda (ci piace sottolineare che tra i protagonisti appare anche Blanquita), per ritornare nel nostro
mondo supponente, predatorio e separatore. Non nel senso di una
contrapposizione dicotomica tra natura e cultura o di una idealizzazione della natura e del "buon
selvaggio" (Van Aken in Fuori,
2015), ma come presa di consapevolezza e opportunità che offre questo film per
riequilibrare il nostro sguardo occidentale
che non è più capace e disponibile a percepirsi parte del mondo, a rimettersi in
connessione con la natura, a riconoscere e dare un nome alle piante, ai frutti,
ai fiori, agli animali, a prendersi cura di esse, a stupirsi e meravigliarsi
con curiosità animata e animale.
È
la primitività del bambino, che non è uno stato di arretratezza e inferiorità da cui emanciparsi, ma, come ci ricorda Klee, è la capacità di uno sguardo non giudicante e incontaminato che sa accostarsi alla realtà nella ricerca della sua essenza.
È lo sguardo di Natan, Jorge e Matraca. Uomini che continueranno a stupirsi per lo sbocciare reiterato di un fiore bianco e il formarsi impalpabile e magico di una bolla di sapone.
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