I figli della notte di Andrea De Sica



I figli della notte di Andrea De Sica è un film complesso, nel senso etimologico del termine (com-plexus), cioè che è tenuto insieme nell’aggrovigliarsi e nell’intrecciarsi del rapporto inestricabile tra educazione e vita.
Il film si apre con un’immagine al bianco: un volto giovane e indefinito si dissolve in un bianco abbagliante che diventa quasi immediatamente necessario immergersi nel nero dell’esperienza di reclusione di due adolescenti, Giulio e Edoardo.
I due ragazzi vengono mandati in un collegio, dai rispettivi genitori, per ritrovare «il giusto passo» perché, ribelli e “monelli” (Ruggiero, Ti sento), si erano allontanati dai percorsi stabiliti e preconfezionati dalle loro famiglie benestanti per divenire la futura classe dirigente.


Giulio e Edoardo vengono così letteralmente rinchiusi in un luogo senza tempo, un dispositivo panoptico dove i ragazzi sono ancora sottoposti a una disciplina normalizzante, correttiva e punitiva attraverso un “sistema incorporeo di procedure in atto” (Massa, 1997): la divisa omologante della scuola (colpisce all’inizio la camicia  a fiori eversiva di Edoardo), gli orari prestabiliti per telefonare e connettersi con l’esterno, la mancanza di gioco e divertimento (Giulio e Edoardo possono sfidarsi in una partita a palla al muro solo di nascosto durante la notte), la tacita omertà degli studenti, dei professori e del direttore, il sapere inculcato secondo il mero principio di utilità e produttivismo, l’obbedienza come obiettivo imperante per imparare a comandare, la sorveglianza costante e pervasiva degli studenti con telecamere nascoste ovunque e, per concludere, la presenza assente degli adulti nella voce metallica e sfuggente di un cellulare o nella figura “angelica” e imperturbabile di un educatore. Adulti che non hanno tempo e non sono in grado di stare accanto alla vitalità, all’energia, alla passione, all’incertezza e all’insicurezza dei ragazzi e accompagnarli nella faticosa scoperta di ogni peculiare progetto di vita, al di là della sicurezza socio-economica, che non è garanzia di realizzazione personale e capacità di orientarsi nella complessità del mondo, anche nell'errore, anche nella difficoltà.

Il collegio, con il suo isolamento e le sue pratiche pervasive cerca di tenere fuori e allontanare il perturbante, il nero, l’oscurità, la passione, il desiderio. E i due ragazzi, nel ribollire di un’età di possibilità infinite e voglia di sperimentare, mettersi alla prova e “vivere sempre più” (Schipa, Vivere), non possono far altro che fuggire per ritrovare il desiderio e l’amore in un locale notturno proibito e seducente.

Ci fermiamo qui, all’incipit del film, perché se aggiungessimo altro alla trama vi rovineremmo il piacere della visione e la tensione che pervadono il racconto.

Vorremo solo concludere con l’immagine finale, che è anche l’inizio. Un’immagine al bianco: lo stesso volto del giovane, nascosto da se stesso con un paio di occhiali scuri, si dissolve nel bianco abbacinante che sembra inghiottire una vita che non è stata accompagnata ad attraversare il nero.
 
 



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