La nuit où j'ai nagé di Damien Manivel, Kohei Igarashi

 
È notte. Fuori nevica. Nella penombra di una casa silenziosa un uomo si prepara per andare al lavoro, al mercato del pesce. Un bambino lo sente, si sveglia,  non riesce a riprendere sonno, disegna dei pesci e inizia a giocare.
Noi spettatori rimaniamo svegli con lui, iniziamo a osservarlo, a guardarlo. Siamo obbligati a rivolgerci al bambino perché è sempre davanti al nostro sguardo.
Qualcuno in sala si annoia, sbuffa forse infastidito dal suo procedere incespicante, dalla sua attenzione alle cose semplici e minute, dal suo stupore per la semplice presenza della realtà, dal suo essere infante, senza parole. Tutto il film è senza parole, si odono solo i rumori attutiti dalla neve. Una neve bianca, a tratti abbagliante, che crea il vuoto e, come in un haiku, fa brillare il bambino.
Il bambino ribelle che trasgredisce le regole, non va a scuola e si addormenta sulla macchina di uno sconosciuto, il bambino-animale che parla con i cani e si sofferma a guardare un uccello nero tra i rami sottili di un albero spoglio, il bambino incurante del tempo e dello spazio che va alla ricerca del padre.
La nuit où j'ai nagé è un esercizio di sguardo, forse estenuante e faticoso perché ci chiede di rallentare, di attenuare ogni pretesa chiarificatrice per lasciarci guidare dal bambino, dal suo essere misterioso e inafferrabile.
Il film è stato presentato alla 74. Mostra del cinema di Venezia.

 

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