I racconti dell'orso
“Ah!
Purché io vi acconsenta
eccoti
qua mia infanzia
così
viva, così presente.
Firmamento
di vetro blu
albero
di foglia e di neve
fiume
che scorre, dove sto andando?”
Charles
Plisnier, Sacre, Corrêa, Paris 1983,
XXI
Dove sto andando? Forse
è la domanda che la bambina seduta sul sedile posteriore di un’auto, nelle prime
immagini del film “I racconti dell’Orso”, si è posta prima di abbandonarsi al
sonno e dissolversi nella materia dei suoi sogni. Prima di immergersi nelle
acque del sonno ristoratore e contemplare le immagini che le sono venute
incontro.
Dove sto andando?
Forse si domandano i due bizzarri protagonisti del sogno, un monaco-robot e un
omino rosso, che si muovono giocando e comunicando con un linguaggio pre-verbale
sullo sfondo di un paesaggio magnifico e sconfinato, abbandonato dall’uomo ma
abitato da un orsacchiotto di peluche. Un giocattolo lacerato che i due trovano
in un bosco e di cui decidono di prendersi cura: lo ricuciono, lo rianimano, lo affidano
agli astri e al fiume.
Dove sto andando? Forse
si domandavano i due giovani registi, Samuele Sestieri e Olmo Amato, che
viaggiando tra Finlandia e Norvegia si lasciavano guidare dai luoghi e dalle
persone che incontravano, dalle immagini che si creavano e si ponevano al
centro del loro essere sognante e immaginante.
Dove sto andando?
Forse si chiedono gli spettatori mentre assistono alla visione di una rêverie d’infanzia (Bachelard, 2008) resa
viva e presente dalla finzione cinematografica, dallo sguardo poetante dei
registi che invitano ad assumere il loro stesso sguardo. Invitano ad allentare
la tensione di voler tutto comprendere e classificare per abbandonarsi al
mistero delle immagini e ritrovare la meraviglia di guardare le cose come la
prima volta.
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