La sagra della primavera



Per dare inizio a un’azione teatrale è necessario uno spazio vuoto qualsiasi, un uomo che lo attraversa e un altro che lo osserva, afferma Peter Brook (1998). Il teatro esiste solo quando accade, continua il regista inglese.
Allora scrivere di teatro e assistere a uno spettacolo attraverso la mediazione di un dispositivo virtuale potrebbero sembrare due atti assurdi, contro natura, se non addirittura impossibili.
Oggi vogliamo provare a raccogliere nuovamente la sfida (ci avevamo già provato nel saggio dedicato al teatro di Brook nel testo curato da Antonacci, 2012), vogliamo provare a lasciare traccia di una rappresentazione di teatrodanza che il diffondersi della pandemia ci ha costretti a guardare in un modo inedito e differente.
Senza escludere a priori la possibilità del teatro in video, che peraltro può offrire all’arte performativa l’occasione di ampliare la sua vocazione minoritaria e sperimentarsi con nuovi linguaggi (come del resto negli ultimi anni si sta già provando a fare attraverso l’introduzione e l’ibridazione con componenti virtuali e digitali sulla scena), riteniamo sia necessario rimanere vigili e critici rispetto al rischio di banalizzazione del teatro a intrattenimento culturale in streaming, di consumo a tutti i costi e soprattutto di trasferimento della scena “direttamente a casa” con la conseguente perdita dell’insostituibile emozionate incontro tra attore e spettatore che avviene solo nel momento presente dell’atto teatrale.
Consapevoli della complessità della situazione e che il senso di ogni proposta andrebbe interrogato singolarmente, abbiamo provato ad accostarci a una delle opere più note della regista e danzatrice tedesca Pina Bausch, “La sagra della primavera”, (Le Sacre du printemps). Lo spettacolo debuttò nel 1975 e fece grande scalpore per la sua scena “povera” ed essenziale, così come, nel 1913, la prima messa in scena dell’opera di Igor Stravinsky generò una profonda rottura con la tradizione per la musica “primitiva e rozza” e la sua dimensione corale.
La nuova versione dello spettacolo, riproposto da 38 danzatori provenienti da diversi paesi d’Africa sarebbe dovuta andare in scena nei teatri del mondo a partire dalla primavera del 2020, ma a causa del covid-19 lo spettacolo è stato sospeso e si è, così, deciso di proporre la ripresa della prova generale realizzata sulle spiagge del Senegal poco prima del lockdown.
Non nascondiamo lo spaesamento iniziale per esserci trovati in uno spazio che non ci era più familiare (non mi riferisco allo scenario inconsueto della spiaggia ma al luogo simbolico e materiale della presenza scenica), ma come spettatori siamo anche preparati allo spiazzamento generato, ogni volta, da ciascuna performance e dallo spostamento nel luogo intermedio e intermediario del teatro.
Abbiamo però ritrovato quello spazio vuoto di cui parla Brook, un rettangolo di sabbia vuoto, definito e delimitato entro cui stava per succedere qualcosa. E abbiamo atteso con lo stesso desiderio e la medesima curiosità di quando assistiamo in presenza. A partire da questo attimo di attesa stupito si è dispiegato lo spettacolo, che la riproduzione in video ha consentito di rivedere più volte perché chiedeva di essere riguardato e riascoltato, perché ci interrogava, perché, ogni volta, i corpi degli attori stagliati nel cielo e radicati nella terra ci connettevano con la dimensione corale e comunitaria del teatro. 
Ci auguriamo di rivivere presto l’emozionante incontro tra attore e spettatore nella radura del teatro.

E’ possibile vedere lo spettacolo con un contributo di 5 sterline fino al 31 luglio 2020. I proventi raccolti serviranno per sostenere l’attività della compagnia e il futuro della produzione.
https://vimeo.com/ondemand/dancingatdusk

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