Doppelgänger. Se incontri il tuo doppio muori
DOPPELGÄNGER
di MICHELE
ABBONDANZA, ANTONELLA BERTONI, MAURIZIO LUPINELLI con FRANCESCO MASTROCINQUE, FILIPPO PORRO Lo
spettacolo è stato riconosciuto con il Premio Ubu come Miglior spettacolo di
danza 2021 Non
chiederci la parola che squadri da ogni lato L’animo
nostro informe […]. Codesto
solo oggi possiamo dirti: “ciò
che non siamo, ciò che non vogliamo”. Eugenio
Montale «Et
chaque être humain (e si potrebbe aggiungere: et chaque chose) crie
en silence pour être lu autrement». Cristina
Campo Cosa
succede se il corpo esposto in scena è un corpo con disabilità? Dalila
D’amico ha provato a lasciarsi interrogare da questa domanda in un interessante
articolo del 2014. Circoscrivendo il campo d’indagine alla danza e al teatro ha
restituito la vita di alcune scene di spettacoli, a partire dagli anni ’70, per
comprendere come la vulnerabilità si ancori alla corporeità del performer e
come venga restituita in un corpo con disabilità. “La vulnerabilità qui
raccontata è intesa appunto come esposizione o predisposizione di un corpo alla
possibilità di ferite” (D’amico, 2014, p.6). La
stessa domanda mi interroga inesorabile dopo aver assistito allo spettacolo Doppelgänger. Se incontri il tuo doppio
muori della compagnia Abbondanza/Bertoni. In
silenzio ho aspettato che le parole giungessero per formulare pensieri intrisi
di emozione e per provare a restituire un soffio, un bagliore delle scene
danzanti e perturbanti di Doppelgänger, di un’esperienza che ha
intensificato, dilatato e moltiplicato il reale avvicinandoci alla sua essenza. In
silenzio abbiamo aspettato che le mani iniziassero ad applaudire dopo la fine
dello spettacolo. Siamo rimasti seduti, fermi, riuniti nel vuoto della scena. Abbiamo
sostato nel buio necessario della fine, prima di subitaneamente applaudire, per
concederci il tempo di varcare la soglia dello spazio liminale tra interno ed
esterno, tra realtà e finzione, “tra la temporalità frammentaria del reale e la
temporalità fluida della coscienza (Brook, 1998, p.14). In
silenzio, in un piccolo teatro che ha creato una distanza intima tra scena e
sala, abbiamo potuto percepire ogni minima sfumatura di rumore, la leggerezza e
la pesantezza dei passi nudi degli “attori-danzatori”, il placarsi e il
soffrire dei corpi, l’avvicinamento e l’allontanamento del doppio da sé,
dell’alterità, della vulnerabilità. Abbiamo assistito a una danza delle
opposizioni, intesa sia come principio e tecnica che muove il corpo e lo rende
vivo, deciso e fittivo sulla scena (Barba, 1993, 2005), ma anche come
possibilità di ricongiunzione degli opposti, trasformazione del corpo
dell’attore e dello sguardo dello spettatore. I
corpi esposti in scena sono i nostri corpi, nati fragili (Canevaro, 2015)
inscindibilmente connessi alla dimensione della ferita e della vulnerabilità,
da cui continuamente cerchiamo di difenderci o che consideriamo caratteristiche
di una popolazione “a parte”, di categorie che sembrano “depositi esclusivi di
fragilità” (Ivi, p.7). E proprio, in virtù di questo allontanamento, la visione
dello spettacolo è perturbante perché “l’atro/specchio mi rivela mie fragilità
che mi inquietano” (Ivi, 17). La persona con disabilità, portatrice di una
ferita, “non solo veicola significati, ma si impone alla vista significando già”
(D’amico, p.8). In
silenzio concludiamo questo breve post che richiederebbe ulteriori riflessioni
e approfondimenti, che testimonia solo uno sguardo possibile e suggerisce la
visione di uno spettacolo necessario. Per
approfondire Barba
E. (1993), La canoa di carta, Bologna: Il mulino. Barba
E. (2005), L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale,
Milano: Ubulibri. Canevaro
A. (2015), Nascere fragili. Processi educativi e pratiche di cura,
Bologna: EDB. D’amico
D. (2014), Il corpo della vulnerabilità in Vulnerabilità/Resilienza,
Elephant @Castle, n.10. Brook
1998, Lo spazio vuoto, Roma: Bulzoni. Turner
V. (1986), Dal rito al teatro, Bologna: Il Mulino. |
Commenti
Posta un commento