È vietato. Trasformare i divieti in desideri, le negazioni in possibilità.
Camminando
ed esplorando, durante questi giorni di vacanza, i vicoli e le piazze di una
cittadina lombarda ci
siamo trovati di fronte all’ennesimo cartello che sancisce il divieto di
giocare. Allo stesso modo, colpiscono i cartelli in cui si rende necessario
esplicitare che, in altre città, bisogna rallentare perché i bambini possono
ancora giocare per strada.
Il divieto di giocare è solo uno
dei tanti dispositivi di negazione, che “agiscono continuamente negli spazi che
abitiamo e nascondono, cancellano, rimuovono. Chiudono, sigillano, oscurano.
Confinano, isolano, separano. Immunizzano, precludono, sterilizzano” (Granata,
2023).
Cosa sta succedendo nell’ambiente urbano? Come viene progettato e strutturato lo spazio architettonico, urbanistico, culturale, educativo che determina ciò che accade o non accade tra le persone che lo abitano? Come è possibile rigenerare l’idea di comunità, di bene e spazio comune? Come è possibile (ri)connettere le persone con i luoghi dove abitano? (Manzini, 2018).
Vi proponiamo l'estratto di un interessante
articolo scritto da Elena Granata, pubblicato il 1 gennaio 2023 su Doppiozero e
che potete leggere per intero qui.
“Nella logica del decoro la città
stessa gioca un ruolo cruciale, si negano in modo sistematico gli spazi di
socialità che nascano fuori da un circuito commerciale, si sgomberano gli
spazi occupati, si investe in modo massiccio in video-sorveglianza e lo spazio
pubblico viene inibito ai ragazzi, ai non consumatori, ai poveri, ai
senzatetto.
Qui sta tutta la negazione dell’idea stessa di urbanità che, come dicevamo, è stata la cifra vincente delle città europee, una dimensione legata all’ospitalità dei luoghi, una predisposizione ad accogliere e facilitare le relazioni umane, lo scambio e la comunicazione tra diversi. Una dimensione legata alla qualità della convivenza civile, a un’idea di cittadinanza inclusiva e tollerante.
Ma se perdiamo questa urbanità che cosa rimarrà della nostra secolare cultura civile? Sono i comportamenti a fare belle le città, prima dei monumenti e delle piazze restaurate in stile. Ma dove si formano i nostri habitus da cittadini? Dove cresce in noi l’attitudine alla relazione e alla cooperazione? Dove diventiamo animali politici e civili?
Aggiro, rallento, inciampo, scantono, mi fermo, accelero: il mio camminare per le strade è un’inconsapevole successione di piccole discontinuità, sequenza infinita di messaggi che il mio corpo interpreta come la trama di un pentagramma, diventa il mio tempo, le mie abitudini, la natura stessa del mio carattere.
C’è un intreccio misterioso tra quello che siamo, quello che diventiamo con il passare del tempo e i luoghi che abbiamo abitato. Esiste una correlazione profonda tra l’habitat – l’ambiente fisico e sociale in cui ci siamo formati – e l’habitus – il nostro abito esteriore, le abitudini acquisite (la comune origine delle parole è evidente), i modi di fare e di pensare, i comportamenti.
[…] Lo spazio influisce sui comportamenti e i modi di vivere condizionano e plasmano gli spazi; di questa relazione reciproca dobbiamo prenderci cura”.
Cosa sta succedendo nell’ambiente urbano? Come viene progettato e strutturato lo spazio architettonico, urbanistico, culturale, educativo che determina ciò che accade o non accade tra le persone che lo abitano? Come è possibile rigenerare l’idea di comunità, di bene e spazio comune? Come è possibile (ri)connettere le persone con i luoghi dove abitano? (Manzini, 2018).
Qui sta tutta la negazione dell’idea stessa di urbanità che, come dicevamo, è stata la cifra vincente delle città europee, una dimensione legata all’ospitalità dei luoghi, una predisposizione ad accogliere e facilitare le relazioni umane, lo scambio e la comunicazione tra diversi. Una dimensione legata alla qualità della convivenza civile, a un’idea di cittadinanza inclusiva e tollerante.
Ma se perdiamo questa urbanità che cosa rimarrà della nostra secolare cultura civile? Sono i comportamenti a fare belle le città, prima dei monumenti e delle piazze restaurate in stile. Ma dove si formano i nostri habitus da cittadini? Dove cresce in noi l’attitudine alla relazione e alla cooperazione? Dove diventiamo animali politici e civili?
Aggiro, rallento, inciampo, scantono, mi fermo, accelero: il mio camminare per le strade è un’inconsapevole successione di piccole discontinuità, sequenza infinita di messaggi che il mio corpo interpreta come la trama di un pentagramma, diventa il mio tempo, le mie abitudini, la natura stessa del mio carattere.
C’è un intreccio misterioso tra quello che siamo, quello che diventiamo con il passare del tempo e i luoghi che abbiamo abitato. Esiste una correlazione profonda tra l’habitat – l’ambiente fisico e sociale in cui ci siamo formati – e l’habitus – il nostro abito esteriore, le abitudini acquisite (la comune origine delle parole è evidente), i modi di fare e di pensare, i comportamenti.
[…] Lo spazio influisce sui comportamenti e i modi di vivere condizionano e plasmano gli spazi; di questa relazione reciproca dobbiamo prenderci cura”.
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