Atticus Finch. Il ruolo educativo del padre dallo sguardo di una bambina
“L’unica cosa che non è tenuta a
rispettare il volere della maggioranza è la coscienza” (p.136)[1].
Trovare la prima edizione, del 1962, del libro di Harper Lee nella libreria della nonna si è rivelato un dono inaspettato, un lascito inestimabile[2]. Una copia difettosa a cui mancavano alcune pagine, recuperate con una più recente edizione per poi tornare al testo ingiallito dal tempo e all’odore penetrante di umidità.
“Non possiamo mai capire veramente una persona finché non consideriamo le cose dal suo punto di vista” (p.43).
Atticus Finch, vedovo, ci viene presentato e fatto conoscere dalla figlia Scout, che all’inizio del romanzo ha sei anni. È lo sguardo di una bambina, arguta e irriverente, che racconta poeticamente il padre, il suo modo di essere, di abitare il mondo e di accompagnare lei e il fratello maggiore Jem nella loro fanciluezza verso un altrove necessario alla scoperta di se. Lo sguardo della bambina non incasella il padre dentro una categoria clinica, sociologica o pedagogica, ma lungo tutto il testo lascia intravedere una progettualità educativa che si dispiega mentre si gironzola per le strade di una piccola cittadina dell’Alabama, nei primi anni trenta, e ci si avventura oltre la siepe.
Non faceva le cose che facevano gli altri padri: “non andava mai a caccia, non giocava a poker, non pescava, non beveva e non fumava. Si sedeva nel soggiorno e leggeva” (p.117). E, ogni sera, insegnava a leggere a Scout di nascosto dalla “dotta autorità” di Miss Caroline, l’insegnante che si era sentita minacciata nel suo ruolo da un padre che, evidentemente, non poteva arrogarsi il compito di insegnare senza conoscere i più innovativi e blasonati metodi didattici.
“Quando un bambino ti fa delle domande, rispondi, per amor di Dio. Ma senza complicare le cose. I bambini sono bambini, ma riconoscono le risposte evasive più in fretta degli adulti, e una risposta evasiva ha solo il potere di confonderli “(p.114).
Atticus riconosce i bambini come persone e non come minori, incapaci di intendere e di volere come li definisce la legge.
“Così c’è voluta una bimba di otto anni per farli ragionare, vero?” disse Atticus. “Questo cosa dimostra? Che una muta di bestie feroci può essere fermata, semplicemente perché sono ancora esseri umani. Uh, forse abbiamo bisogno di un corpo di polizia fatto di bambini…Stanotte voi bambini avete costretto Walter Cunningham a mettersi per un minuto nei miei panni. È stato sufficiente”(p.198).
Atticus è un padre che incessantemente ricerca e genera un rapporto di fiducia con i figli, crea un nuovo legame educativo con Scout e Jem, orfani della madre, attraverso la sua rettitudine, la sua presenza e la sua parola, facendosi, ad esempio, sentire di proposito da Scout mentre spiega la sua del tutto impopolare e coraggiosa scelta di difendere Tom Robinson, un afroamericano accusato – ingiustamente - di aver stuprato una ragazza bianca.
“Preferirei che tu sparassi alle lattine nel cortile, ma so che andrai a caccia di uccelli. Abbatti tutte le ghiandaie che vuoi, se riesci a colpirle, ma ricordati che è un peccato uccidere un tordo beffeggiatore” (p.118).
Atticus insegna ai figli il riconoscimento
e il rispetto per la diversità e la fragilità umana rappresentata
metaforicamente dal tordo beffeggiatore (un piccolo volatile simile al passero)
del titolo originale del romanzo (To Kill a Mockingbird) e nella storia da Tom Robinson e
Boo Radley, lo “strano” vicino relegato in casa che suscita la
curiosità dei bambini e che per Atticus è solo una persona indifesa verso la
quale ogni offesa sarebbe crudele ed inutile, proprio come uccidere un
uccellino.
[2] Si ringraziano la nonna Cecilia Bucci per l'eredità del testo e il nipote Germano Centola per aver condiviso il libro, le riflessioni e la scrittura di questo post.
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