Fantastic Machine. Guardare, guardarci e farsi guardare attraverso una videocamera
Ogni giorno vengono pubblicate 300 milioni di immagini”.
Abbiamo,
più volte, avviato su questo blog alcune riflessioni sul modo in cui il
dilagare globale di immagini e l’immaginario prodotto dai media svolge una
funzione educativa, il modo in cui ci informa e forma il nostro sguardo, il
modo in cui esso tacitamente e pervasivamente influenza i processi di
apprendimento, le dinamiche sociali e culturali, la rappresentazione della
realtà stessa.
Abbiamo avvertito la necessità di ritornare su questo argomento dopo la visione del documentario Fantastic Machine di Alex Danielson e Maximilien Van Aertryck, prodotto da Ruben Östlund (regista di Triangle of Sadness e The Square).
L’
excursus storico proposto nel film ci accompagna, a partire dal 1839 (anno
in cui fu riprodotta la prima immagine su una lastra fotografica), verso una
contemporaneità grottesca e infestata da immagini e video che riproducono,
trasformano e creano il reale. In quasi 200 anni di storia l’uso di macchine
fantastiche, “in grado di mostrare anche ciò che non è avvenuto” - come ebbe a dire
Edoardo VII d'Inghilterra nel 1902 quando vide le riprese della sua
incoronazione fatte da Georges Méliès in studio, è mutato nel tempo.
Sembra
che oggi non siamo più capaci di guardare l’esistente se non attraverso gli
occhi di una videocamera: chi filma ogni istante la sua vita, chi rischia la
vita per filmarsi, chi esibisce l’intimità di un’emozione (se è di un bambino la
reazione istintiva e l’attrazione sono assicurate), chi bambino o ragazzo si sovraespone
senza protezione e inconsapevolmente allo sguardo rapace di tutti e nessuno,
chi vende il suo corpo o parti di esso, chi per sbaglio si addormenta durante
una sessione di videogiochi e attrae l’attenzione di centinaia di persone.
Il film non fornisce risposte, soprattutto risposte facili che tendono ad attribuire ogni colpa della crescente situazione di disagio e di allarme sociale, in particolare tra i ragazzi, ai social media. Piuttosto genera domande: siamo consapevoli che non facciamo più distinzione tra il vivente e l’apparecchio, tra la vita artificiale e la vita e basta? (Benasayag, 2021) siamo consapevoli che usiamo i social media perché lo fanno tutti e perché altrimenti saremmo emarginati? siamo consapevoli dell’influenza esercitata dalle aspettative sociali mediatiche e dallo sguardo degli altri? siamo consapevoli che non facciamo altro che guardare, guardarci e farci guardare attraverso gli occhi di una videocamera? siamo consapevoli del perché e di che cosa decidiamo di mostrare agli altri? siamo consapevoli del fatto che, geolocalizzandoci, continuamente forniamo informazioni rispetto al nostro contesto di vita?
Invece di vietare o accusare i dispositivi mobili, forse potremmo iniziare a porci queste domande insieme ai bambini e ai ragazzi che sempre più precocemente si limitano a guardare se stessi, gli altri e il mondo attraverso una videocamera.
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