Flow. Un mondo da salvare di Gints Zilbalodis
Le opere cinematografiche
(non tutte, beninteso) riattivano lo stupore dello sguardo, la
meraviglia di rimanere in attesa che qualcosa di sorprendente accada, il
piacere di non fare nient’altro se non guardare e partecipare con il corpo, la mente,
il cuore, l’intuizione, la percezione sensibile, l’immaginazione. Un’esperienza
di flow, direbbe lo psicologo Csíkszentmihályi (1990).
Lo sguardo intimorito e
al contempo incuriosito di un piccolo gatto nero che si specchia nell’acqua può
ipnotizzare e trascinare in un’esperienza visionaria, poetica e trasformativa:
percepiamo ciò che sente, intuiamo ciò che fa, partecipiamo alle sue avventure,
comprendiamo le sue scelte e assistiamo al suo cambiamento. Le parole non
servono, sembrano superflue come la presenza dell’uomo, forse complice o
artefice della sua sparizione dal mondo.
Il gatto protagonista di Flow
(2024), film di animazione del regista lèttone Gints Zilbalodis, si trova ad
affrontare un’improvvisa inondazione su una sgangherata barca a vela con un
gruppetto di altri animali, tra cui un lemure, un cane labrador, un capibara e
un uccello.
Flow è una storia di
immagini (realizzate con un software open source il cui effetto di “animazione
povera” risulta simile a quello dei videogiochi), una favola per tutti, un
film d’acqua, elemento simbolico ambiguo che inghiotte, distrugge, offre
nutrimento, ammalia, purifica, trasforma (Antonacci, 2007).
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