Diario di un brutto anatroccolo


da H.C. Andersen
di Tonio De Nitto
con Ilaria Carlucci, Francesca De Pasquale, Luca Pastore e Fabio Tinella

Che cosa succede se il corpo esposto in scena è un corpo con disabilità?

Questa domanda, stimolata dal saggio “Il corpo della vulnerabilità” di Dalila D’amico (2014), è tornata a interrogarci dopo la visione di Diario di un brutto anatroccolo, messo in scena, dal 2016, da Factory Compagnia Transadriatica (https://www.compagniafactory.com/). Uno spettacolo di teatro-danza realizzato con attori con e senza disabilità che racconta il percorso di formazione e trasformazione dell’identità di un piccolo cigno e di ciascuno di noi. Un percorso mai lineare e spiraliforme segnato da  ferite, non sempre visibili, che possono essere accolte o respinte, rielaborate e superate o che possono bloccare il cammino. L’arte è spazio liminale di trasmutazione del reale e delle ferite che apre alla possibilità di ri-significare il mondo e noi stessi.

Cosa succede se il corpo in scena è un corpo che espone la propria fragilità?

Non si tratta di spettacolarizzare la disabilità, come succedeva nel 1800 nei freakshows che esibivano l’alterità come bizzarria e “stravaganza della natura” (D’Amico, 2014, p.8) o come succede nella contemporaneità in quella che l’attivista australiana Stella Young definisce inspiration porn, “la rappresentazione della disabilità oggettivata come fonte di ispirazione per le persone abili” (Valtellina in Olivier, 2023, p.10).

“Denudando la propria labilità il performer si costituisce come oggetto e soggetto della performance. La sua vulnerabilità non è drammatizzata, ma si costituisce essa stessa come motore di senso. […] Il portatore di queste ‘ferite’, non solo veicola significati, ma si impone alla vista significando già” (D’Amico, 2014, p.8).
Il corpo fragile del piccolo cigno, creduto anatraccolo, è talvolta impacciato e tecnicamente imperfetto ma eloquente e autentico, trascina sulla sua pelle i discorsi e i significati inscritti dalla nostra tradizione culturale ma presenta anche il proprio modo di vivere e sentire la vulnerabilità. Non esibisce l’alterità ma si fa veicolo di altre significazioni possibili, impalpabili e inafferrabili, è “soglia di passaggio tra l’interno e l’estero, apertura verso il mondo e lo spettatore, costituito a loro volta della stessa sostanza del corpo degli artisti” (ivi, p.11).

Gli spettatori sono i bambini che guardano la diversità non come anormalità ma come espressione dell’irriducibile complessità e varietà dell’esistente. Gli spettatori sono persone con disabilità che hanno finalmente la possibilità di partecipare alla vita culturale e artistica (art. 31, Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia, 1989) condividendo l’esperienza di andare a teatro per vedere uno spettacolo reso fruibile e accessibile attraverso alcuni facilitatori che la Compagnia mette a disposizione per prepararsi alla visione (la sinossi della storia scritta in modalità facilitata e tradotta in simboli della Comunicazione Aumentativa Alternativa, un video che mostra il percorso per entrare a teatro e in sala). Gli spettatori siamo tutti noi che assistiamo a un “momento della verità” (Barba, 1993) che turba il futuro perché sconquassa il modo di fare teatro e il modo di abitare il mondo trasgredendo i dualismi insiti nella nostra cultura, abbracciando gli opposti e valorizzando le differenze.

   
Per approfondire
Barba E. (1993), La canoa di carta, Bologna: Il mulino.
D’amico D. (2014), Il corpo della vulnerabilità in Vulnerabilità/Resilienza, Elephant @Castle, n.10.
Olivier M. (2023), Le politiche della disabilitazione. Il Modello Sociale della disabilità (1990), Verona: Ombre Corte.

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